La nuova pastorale familiare: “non cambiare nulla per cambiare tutto”

Le parole possono essere usate per orientare i comportamenti delle persone, inclinandole verso posizioni ben determinate. In tal caso assumono un ruolo quasi magico, talismanico, appunto. È proprio quanto sembra accadere con i termini usati nella nuova pastorale sulla famiglia.

Come scegliere le parole chiavi giusteUno studioso ha osservato che la nuova pastorale sembra usare il rovescio del metodo auspicato dal Gattopardo – il famoso romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa – secondo il quale “bisogna cambiare tutto affinché non cambi nulla”. La pastorale rivoluzionaria invece preferisce questo metodo: “non cambiare nulla affinché possa cambiare tutto”. Ossia: non cambiare nulla nella formulazione astratta della dottrina, affinché si possa cambiare tutto nella concreta prassi pastorale”.

Questo vale anche per la nuova pastorale familiare. Essa infatti si fonda non su una dottrina esplicita, ma su alcune parole-chiave che propongono un metodo che a sua volta suscita un orientamento generale. Tale orientamento viene applicato ai problemi esaminati e alle soluzioni proposte, usando massime, formule e slogan che suggeriscono una “riforma” della prassi ecclesiale.

Un tale cambiamento di linguaggio riguardante la pastorale familiare non può lasciarci indifferenti. Il cristiano infatti sa che «il mistero dell’amore di Dio per gli uomini riceve la sua forma linguistica dal vocabolario del matrimonio e della famiglia» (Benedetto XVI, discorso del 6-6-2005). Pertanto il modo di pensare e vivere i ruoli matrimoniali e familiari influisce molto sul modo di pensare e vivere Dio, Gesù Cristo, la Chiesa e i Sacramenti; un’ambiguità o un errore nel primo campo può avere gravi conseguenze negli altri.

Ne abbiamo una conferma proprio dalla evoluzione linguistica imposta dalla nuova pastorale familiare. Essa produce un risultato rilevante: coloro che usano le sue parole-chiave vengono gradualmente trasbordati da una posizione precisa (bianca, per così dire), prima a una posizione ambigua (grigia) e poi a una posizione opposta (nera). Ad esempio, l’uso di alcune parole può spingere a sostituire un giudizio globale con uno parziale, o uno sostanziale con uno accidentale, o uno morale con uno sentimentale, o uno rigoroso con uno permissivo. Si finisce così nel considerare come buono, o almeno tollerabile, ciò che all’inizio era considerato cattivo – o viceversa.

Il problema sta proprio nel ruolo svolto da quelle parole-chiave. Esse non si limitano a “esprimere ciò che significano” (un concetto, un valore, un giudizio) che può essere facilmente accettato o rifiutato dall’ascoltatore consapevole, ma tendono a “realizzare ciò che significano”, ossia a produrre in chi le usa un effetto (una scelta, una posizione, un comportamento) difficile da rifiutare, poiché inclina verso una precisa direzione. Com’è noto, in modo simile operano le formule magiche, ed è per questo che tali parole possiamo chiamarle “magiche” o “talismaniche”. Pur sembrando banali e innocue, nel contesto in cui vengono usate esse possono esercitare una pericolosa influenza che tende a manipolare la mentalità di chi le usa mediante una tecnica implicita di persuasione psicologica.

Roma, 17 luglio 2016

Guido Vignelli

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