Nella Chiesa si sta facendo strada una prospettiva egualitaria secondo cui un’azione può avere due fini primari, contrariamente agli insegnamenti dell’Humanae vitae e a quelli della dottrina tradizionale di San Tommaso d’Aquino.
L’ultima volta ho segnalato il pericolo di una nuova pastorale matrimoniale che pretende di “bilanciare” o d’ “integrare” le esigenze della castità con quelle dell’erotismo, quelle della procreazione con quelle del piacere, quelle della fedeltà con quelle della libertà, quelle della indissolubilità con quelle della indipendenza. Si tratta di una prospettiva ugualitaria che tenta invano di mettere sullo stesso piano finalità che possono essere armonizzate solo se quella superiore sottomette e regola quella inferiore, in modo da collaborare insieme alla riuscita della vita coniugale.
Facciamo un esempio che riguarda i fini del matrimonio.
Una volta s’insegnava chiaramente che il matrimonio ha due fini: quello primario, che consiste nella procreazione ed educazione della prole, e quello secondario, che consiste nel reciproco aiuto coniugale e nel “rimedio alla concupiscenza”, come si diceva con realistico linguaggio. Ovviamente il fine secondario va conseguito subordinatamente a quello primario. Pertanto i coniugi capivano bene, ad esempio, che ogni atto sessuale dev’essere (almeno implicitamente) aperto alla procreazione, per cui ogni azione che impedisce fisicamente questa procreazione impedisce conseguire il fine primario del matrimonio e quindi è moralmente illecita e da evitare, sotto pena di peccato.
Oggi invece s’insegna spesso che il matrimonio ha “due fini primari” (o “comprimari”), ossia procreazione e “amore”, i quali possono essere voluti e perseguiti insieme, a pari merito, senza subordinare l’uno all’altro. Ma poi, in concreto, a volte accade che ottenere un fine impedisce di salvare l’altro, ad esempio accade che l’ “amore” (ossia, come s’intende oggi, il piacere sessuale) sia ricercato dai coniugi a costo d’impedire attivamente la procreazione usando la contraccezione artificiale. In tali casi, oggi tutt’altro che rari, dato che l’ “amore” non è più considerato subordinato alla procreazione, alla quale non può più essere sacrificato, l’unica soluzione starebbe nel trovare un compromesso tra quei due “fini primari”. Date le conseguenze del peccato originale e l’influenza del moderno erotismo, ovviamente quel compromesso tenderà a favorire la concupiscenza a spese della procreazione, magari con la benedizione di qualche teologo che lo giustifica come una “soluzione pastoralmente misericordiosa”.
Ma a questo punto la concupiscenza viene promossa a fine primario del matrimonio, col diritto di sottomettere la procreazione, ridotta a fine secondario, alle proprie esigenze, per non dire al proprio capriccio: ossia accade il rovescio di quanto aveva insegnato l’enciclica Humanae vitae di Paolo VI. Il che conferma l’errore di aver abbandonato la tradizionale dottrina (quella di san Tommaso d’Aquino, ribadita da Pio XI nell’enciclica Casti connubii) secondo cui un’azione non può avere due fini primari, ma può averne uno solo, al quale subordinare gli altri fini come secondari.
Guido Vignelli