Vivere in esilio è certamente un dolore. San Giuseppe si trovò allora allo sbaraglio stando esule, con Gesù e Maria, in Egitto?
Non esattamente così, per quanto fosse stata precipitosa la fuga da Betlemme e per quanto l’Egitto fosse straniero per indole, costume, lingua e religione, e chiamato «popolo barbaro» (Sal 113,1) per la sua idolatria. Egli arrivava là con la prospettiva di una situazione non tanto minacciosa quanto quella che si era lasciata alle spalle. Sapeva, in base alla conoscenza della Sacra Scrittura e alle memorie della sua gente, che gli egiziani, amici o nemici, non erano mai stati pregiudizialmente chiusi agli ebrei e che questi mantenevano con quelli un rapporto continuo.
In Egitto era andato Abramo con la moglie Sara ricevendone «greggi e armenti e asini, schiave e schiavi, asine e cammelli», e poi venendo accompagnato fuori della frontiera dalla scorta di alcuni uomini (Gen 12,16-20).
Vi era stato portato l’antico Giuseppe con i mercanti israeliti, ascendendo poi di onore in onore presso il faraone fino a diventare vice- ré d’Egitto, benché prima fosse stato tentato, accusato e incarcerato (cf. Gen 39,40-41).
Vi era stato invitato Giacobbe con la famiglia per riabbracciare Giuseppe dopo tanti anni di separazione (Gen 46,47-48) e per morirvi.
Vi si erano rifugiati molti israeliti per salvarsi quando Nabucodonosor, re di Babilonia, sparse il terrore in Palestina (587 a.C.), distruggendo Gerusalemme e conducendone schiavi gli abitanti, come quando imperversarono le guerre di Antioco, di Ircano e di Aristobulo.
C’era anche, a Leontopoli, un grande tempio che ricordava fedelmente quello di Gerusalemme.
Il nostro Santo non poteva non pensare che, dal momento che era stato Dio ad assegnargli l’Egitto come luogo di rifugio, avrebbe finito con il trovare, prima o poi, una sistemazione conveniente. Lavoratore del legno, avrebbe trovato il mezzo con cui rendersi utile a se stesso e agli altri. Capofamiglia, avrebbe trovato un’abitazione con l’aiuto dei connazionali là emigrati e benestanti in fiorenti colonie, pur non escludendo la possibilità di incappare in una spia degli erodiani. Proprietario dell’oro datogli dai Magi, avrebbe potuto sfruttarlo meglio tra gli egiziani che, grazie ai faraoni e ai romani, conducevano un tenore di vita più alto di quello degli ebrei. Memore dell’avviso dell’Angelo, non si sarebbe addentrato molto nell’interno dell’Egitto, bastandogli stare poco lontano dalla frontiera della Giudea per salvare la vita del Bambino.
Quanto tempo san Giuseppe sia rimasto in esilio, non è facile precisare con esattezza; secondo l’opinione oggi corrente, può esserci rimasto circa due anni, cioè fino alla morte di Erode (cf. Mt 2,15) e alla definizione dei suoi successori nelle diverse regioni, i suoi figli Archelao, Antipa e Filippo: definizione avvenuta parecchi mesi dopo la sua morte (cf. Mt 2,22).
Questa esposizione non intende affatto sottovalutare il dolore patito da san Giuseppe esiliato in Egitto, ma vuol mettere in risalto che, finché non arriva il momento della fine, Dio, pur permettendo il dolore, lascia a chi soffre la possibilità di cercarsi rimedio o sollievo e di trovarlo. Agisce così perché neanche Lui prova piacere nel permettere la sofferenza, ma la permette per consentire un bene migliore a chi la sopporta. Egli non abbandona mai, qualunque situazione penosa incomba; è pronto a consolare, più pronto per chi sa rivolgersi a Lui con l’umiltà e la fiducia di colui che sa di avere per propria colpa meritato quella sofferenza.
Perciò bisogna confidare sempre in Dio, anche nella posizione umanamente più sconsolata; correre a Lui come la gazzella corre incontro al cacciatore che l’ha ferita; riposare rasserenati sulle promesse di Dio e aspettarsi il suo aiuto in qualsiasi bisogno; ricordarsi spesso che nulla commuove Dio quanto la fiducia in Lui.
Le prove di questa vita, per quanto sembrino lunghe, sono tutte di breve durata, anzi la vita stessa è appena un momento di fronte all’eternità.
«Può avere fiducia in se stesso soltanto colui che prima l’ha riposta in Dio» (Ferrari).
100
«Se Dio risponde con la Provvidenza alla confidenza ordinaria, a chi straordinariamen- te confida, straordinariamente anche provvede» (san Giuseppe Cottolengo).
L’uccello non teme se sotto il proprio corpo sente tremare il ramo sul quale è appoggiato, perché sa di possedere due ali che di slancio lo porterebbero in alto, nella luce e nella libertà.
Santa Teresina del Bambin Gesù diceva: «Signore, pure all’inferno starei bene con te!». Come san Vincenzo de’ Paoli al processo di san Lazzaro, ognuno deve saper dire: «Io non temo che i miei peccati».
«Anche se cadesse il cielo, non ne mancherebbe mai un altro per chi spera nel Signore» (proverbio).
Proposito: Impariamo a reagire alla tristezza invocando il nostro Santo con le parole: San Giuseppe, aiutami tu a confidare in Dio.
Tutti diritti sono riservati
L’ha ribloggato su Tutto nell'Amoree ha commentato:
Buono per riconoscere anche i nostri esilii ed accettarli con gioia, umiltà e fiducia profonda nel nostro Dio!
"Mi piace""Mi piace"