San Giuseppe era un falegname (Mt 33,35; Mc 6,3) che, trovandosi in un paesino arretrato, doveva saper fare all’occorrenza anche il fabbro, il muratore, il carradore e dell’altro ancora. Maneggiava pertanto il martello, l’ascia, la sega, la pialla, il trapano a mano, la scure. Costruiva secchie, pale, gioghi, madie, porte, aratri, panche, serrature, travi, selle, spranghe.
Se non avesse voluto lavorare, sarebbe bastato che avesse rivelato il segreto della messianicità del suo Gesù, e avrebbe attirato onori e comodità su di sé e sulla propria famiglia, ma egli volle lavorare.
Sapeva molto bene quanto la Sacra Scrittura comandasse all’uomo (anche patriarca, profeta, dottore) di «guadagnare il pane con il sudore del volto» (Gen 3,19) e quanto condannasse, soprattutto nel Libro dei Proverbi, i fannulloni.
Lavorava nonostante si sapesse discendente di una famiglia illustre che annoverava ventitré re tra i suoi antenati, sebbene vivesse nella stessa terra in cui i suoi avi avevano fatto i padroni, benché sapesse il lavoro manuale non onorato da molti come degno di persona libera e onesta.
Sentiva il peso della fatica. Non è fantasia, ma storia immaginarlo carico di arnesi nelle mani e sulle spalle, cercatore di legno nel bosco e di commissioni in paese, stanco soprattutto alle braccia, molestato dal freddo o dal caldo, più bisognoso di riposo con il trascorrere dell’età.
Pativa le strettezze della povertà dovendo vivere con il guadagno minimo, proprio del mestiere di falegname e di un paesino povero, quale era Betlemme o Nazareth.
Soprattutto lavorava per Gesù e per Maria, per nutrirli e vestirli; e metteva perciò nel lavoro tutta la passione dell’amore più puro trasformandolo in continua preghiera, in opera di culto. A Gesù insegnò il mestiere, per averlo come aiutante nella bottega e poi suo continuatore (Mt 13,55), e lo ebbe modello di comportamento nelle vicende dell’attività.
Lavorava anche per gli altri, massimamente per rendere un servizio di carità a chi ne aveva bisogno, con ordine, diligenza e giustizia.
Dovette dar prova di grande laboriosità specialmente nei circa due anni trascorsi in mezzo agli stranieri in Egitto.
Il nostro Santo ha davvero tutti i titoli per essere Patrono dei lavoratori e tale lo proclamò il papa Pio XII dinanzi a trecentomila operai radunati in Piazza San Pietro il 1° maggio 1955, istituendo la celebrazione della festa di san Giuseppe che «non solo impersona presso Dio e la Chiesa la dignità del lavoratore del braccio, ma è anche sempre il provvido custode vostro e delle vostre famiglie».
Anche chi non fa il falegname compren- de subito che il genere del mestiere scelto da san Giuseppe per tutta la vita, e conseguen- temente accettato da Gesù per circa diciotto anni, non vuole affatto indicare deprezza- mento degli altri mestieri o delle altre professioni e arti praticate dagli uomini, perché esso doveva servire allora a dimostrare ai contemporanei che l’eccezionale scienza di Gesù non era stata acquistata con metodi e mezzi umani.
In Cielo, san Giuseppe non dimentica di essere stato lavoratore e ha certamente uno sguardo di preferenza per coloro che si esercitano nell’attività identica o somigliante a quella che egli svolse in terra.
Dal suo esempio discendono preziosi insegnamenti:
«Il lavoro manuale è ordinato a quattro scopi: a procurarci il necessario per vivere, ad evitare l’ozio che è fonte di molti mali, a frenare la concupiscenza in quanto il lavoro macera il corpo e a darci la possibilità di fare l’elemosina» (san Tommaso).
Dinanzi a Dio, le più umili occupazioni sono compatibili con le più alte dignità. Bisogna lavorare più con l’anima che con il braccio o con la mente, essendo l’anima la parte migliore della persona.
Per quanto lecito sia il guadagno contenuto nella giusta misura, occorre tener presente che prima di esso c’è il servizio a chi si trova in stato di necessità. L’uomo ha bisogno più del lavoro che del guadagno, più della carità che dell’autosufficienza.
Non esiste soltanto il lavoro manuale come non esiste solo il lavoro intellettuale: c’è anche il lavoro spirituale, comandato al lavoratore del braccio e al lavoratore della mente, perché entrambi diventino moralmente migliori.
È necessario lavorare come se si dovesse vivere sempre, e vivere come se si dovesse morire ogni giorno. È un dovere non sprecar tempo lavorando.
Povero non è chi non ha nulla, ma chi non vuole o non può lavorare. E la povertà non è di per sé una virtù, ma è virtù saperla sopportare degnamente.
Raccogliere trucioli in falegnameria per amor di Dio è bello quanto costruire chiese. L’amor di Dio comporta: conservare lo stato di grazia, fare in ogni cosa la Volontà del Signore, avere dinanzi a sé il pensiero della presenza di Dio.
Il mondo del lavoro troverà pace se parlerà più di doveri che di diritti, più di disciplina che di libertà, più di ideali che di interessi.
Proposito: Qualunque sia il nostro lavoro manuale di oggi, facciamolo in compagnia e ad imitazione di san Giuseppe, invocandolo con la giaculatoria: Modello dei lavoratori, prega per noi.
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