Dalla sua carità ebbe principalmente origine la pazienza mirabile con la quale soffriva le ingiurie e domava l’ira. Ebbe a tollerare frequenti torti, indiscrezioni, mortificazioni, rimproveri contro ogni giustizia; eppure egli non solo mai si risentì ma anzi dai mali trattamenti prendeva motivo di gioia. In tutto il tempo che esercitò l’ufficio di questuante, vale a dire per lo spazio di circa quarant’anni, tornando egli stanchissimo dalle questue e sovente ancora bagnato di pioggia, intirizzito dal freddo o arso dal sole, qualcuno della famiglia in vece di compatirlo lo riempiva di rimproveri, perché portava in convento dei cibarie di non buona qualità, come pane duro e vino torbido o acido, tacciandolo perciò di pigro, di trascurato di poca carità e di nessuna abilità. Ma benché egli non avesse potuto ricevere dai contadini altri generi che quelli, tuttavia senza scusarsi soffriva tutto con eroica pazienza, anzi entrando talvolta nella sua cella, credendo di non esser ascoltato, rivolgendosi al Signore si udiva esclamare: O mio Dio questo è quello che io cerco, faticare ed essere vilipeso, patire ed essere disprezzato e come diceva San Giovanni della Croce: Domine pati, et contemni pro te (Signore, soffrire ed essere disprezzato per il tuo amore!)
Non fu mai visto adirarsi, benché ne avesse frequenti occasioni e per qualunque evento mantenne sempre nell’animo una quiete inalterabile. Chiestogli una volta come facesse a non inquietarsi mai per qualunque avversità, rispose: Fratello per non inquietarsi tenete a mente queste tre parole: soffrite, tacete ed orate; ma queste tre parole per tenersele bene in mente per poi praticarle, bisogna impararle a digiuno, perché se la mente avrà qualche fumo mandato al cervello dalla bile, subito ve le scorderete.